Perché non possiamo fregarcene delle città, perché la costruzione del bene comune ci interpella personalmente…

Non è certo la prima volta che ho avuto modo di ascoltare questa affermazione conciliare, ma chissà per quale motivo, venerdì sera, l’ho sentita particolarmente impegnativa: “In realtà essi (i laici) esercitano l’apostolato evangelizzando e santificando gli uomini, e animando e perfezionando con lo spirito evangelico l’ordine temporale, in modo che la loro attività in quest’ordine costituisca una chiara testimonianza a Cristo e serva alla salvezza degli uomini. Siccome è proprio dello stato dei laici che essi vivano nel mondo e in mezzo agli affari profani, sono chiamati da Dio affinché, ripieni di spirito cristiano, esercitino il loro apostolato nel mondo, a modo di fermento”.

È un brano tratto dall’Apostolicam actuositatem, il decreto sui laici emanato alla fine del Concilio Vaticano II. Come tradurre queste righe in modo più semplice e intuitivo? Potremmo provarci così: “I laici sono pienamente corresponsabili della Chiesa, e il loro campo d’azione fondamentale è il mondo: la famiglia, la scuola, il lavoro, la società, la politica, la cultura… Ed è lì che è interpellata la nostra testimonianza cristiana”.

Prese sul serio, sono parole che ci mettono terribilmente in discussione. Di fronte a questa sollecitazione, siamo costretti a chiederci se il nostro impegno è rivolto solo verso l’”interno”, verso la vita della Chiesa e dell’associazione, oppure se ciò che facciamo come Ac aiuta le persone a “fermentare il mondo”. Se prese sul serio, queste parole ci “obbligano” a pensare alla qualità della formazione che offriamo: essa serve a generare laici in grado di portare il Vangelo in ogni aspetto della vita pubblica?

Sono tematiche terribilmente serie. Ne abbiamo parlato venerdì sera in Consiglio diocesano. Un Consiglio particolare, perché dedicato unicamente al tema “Ac e bene comune”. Una prima riflessione, un primo appuntamento per riflettere sul “come” possiamo diventare più incisivi e significativi nelle vite delle nostre città. Un appuntamento molto interessante, anche perché siamo stati guidati nel dibattito da don Aniello Tortora (nostro assistente adulti ma anche responsabile della Pastorale sociale diocesana e della Scuola di formazione alla cittadinanza attiva, alla quale partecipiamo pienamente come Ac), Raffaele Cerciello (vicepresidente Caritas) e Umberto Ronga (docente di Diritto costituzionale, esperto di tematiche amministrative, presidente del Meic e collaboratore dell’istituto Bachelet).

Vorrei riassumere quanto ci siamo detti in 4 parole e 2 piste operative. Le quattro parole: generatività, competenza, accompagnamento, coraggio. Le due piste operative: osservatori, animazione sociale. Vediamole brevemente:

generatività: il tema fondamentale è quello di offrire cammini formativi in grado di “generare” (figurativamente) laici in grado di responsabilità verso se stessi, verso gli altri e verso la città, capaci di riconoscere e valorizzare il dono che gratuitamente è stato loro offerto. È per questo motivo che ogni cedimento al pressapochismo sulle figure educative e sulla qualità della formazione è, semplicemente, un modo di ridurre l’Azione cattolica a poco più di un intrattenimento;

competenza: non si tratta di diventare specialisti o professionisti di alcuni temi, ma di dotarsi di quella infrastruttura formativa ed esperienziale che poi consente di entrare bene, con razionalità e obiettività dentro i problemi che ci circondano;

accompagnamento: l’Ac deve essere in grado di accompagnare giovani e adulti a scelte significative di vita, anche di impegno pubblico, e poi sostenere tali scelte con adeguati percorsi di spiritualità e formazione. Un accompagnamento onesto e franco, senza forme di ambiguità o nuovi e pastosi “collateralismi”.

coraggio: è la parola che più rimbombava durante il Consiglio diocesano. Spesso, sia come individui che come associazione, arriviamo sull’uscio della scena pubblica. Poi, spaventati, sbattiamo la porta e torniamo nella nostra stanza. Ci spaventa un contesto economico-sociale-politico che metta a dura prova i nostri valori e il nostro stile. Ma la domanda da porsi oggi è: se non noi, chi può farlo? A chi deleghiamo?

Dalle quattro parole alle due ipotesi di piste operative:

osservatori: in passato ci sono state diverse esperienze, con risultati alterni. In Consiglio ci siamo scambiati l’idea per cui tali realtà devono godere di una effettiva libertà d’azione, di un metodo condiviso (obiettività, competenza, tensione verso il bene comune) e di una forte apertura ad altre realtà associative. Alcune città, in cui l’Ac è ben radicata, si prestano a questa ipotesi di lavoro e di cooperazione;

animazione sociale: il Sinodo ci spinge fortemente alla lettura della realtà che ci circonda. Una lettura cui poi deve seguire una risposta pastorale e sociale. Laddove le condizioni associative lo consentono, giovani e adulti possono immaginare servizi che vadano oltre la “carità” intesa come soddisfazione emergenziale di un bisogno, sempre cercando la cooperazione con altre realtà. L’Ac diocesana potrebbe premiare e sostenere le migliori progettualità, in accordo anche con il Progetto Policoro; esperienze del genere potrebbero essere anche una “palestra” per abituarsi a leggere le esigenze e le risorse del territorio e trovare in esse possibili sbocchi lavorativi, secondo il modello della cooperazione fortemente sostenuto dal Progetto Policoro.

Sono punti da approfondire e che apriamo al contributo di tutti. Siamo in grado di accogliere questa sfida? Credo di sì. Spesso ci sottostimiamo. Trascuriamo il nostro radicamento e la nostra popolarità. Sottovalutiamo anche quell’esercizio di democrazia ordinaria (il discernimento, i Consigli, l’alternanza nelle responsabilità, il lavoro di squadra…) che ci “abilita” ad abitare tutti i luoghi della vita temporale, compresa la politica. Non consideriamo abbastanza la nostra storia, quella storia che ci ha consentito di essere tra i “ricostruttori” del Paese dopo la seconda guerra mondiale. Abbiamo nel nostro Dna la “scelta religiosa” cui ci ha condotto Vittorio Bachelet dopo il Concilio non per “allontanarci dal mondo”, ma per servirlo con ancora più passione e maggiore integrità morale. Anche l’ultima Assemblea nazionale ci ha consegnato una parola-chiave, “primato della vita”, che ci spinge ad avere a cuore tutto ciò che riguarda l’uomo.

Ma io credo che noi non solo abbiamo la possibilità, ma addirittura il “dovere” di provarci. Nella nostra associazione ci sono tantissimi ragazzi e adolescenti che al momento hanno avanti poche prospettive. Prestano il preziosissimo servizio educativo centinaia di giovani che non hanno problemi diversi dagli altri giovani, in primis quello del lavoro che non c’è, del lavoro in nero, della precarietà, dell’incertezza. Camminano con noi coppie che hanno il problema della casa, del lavoro, del futuro, delle degne opportunità per i figli. Prima di dire “non possiamo occuparcene, non è cosa per noi”, ecco, dobbiamo ben avere dinanzi ai nostri occhi tutte le persone che l’Ac accompagna. Prima di dire “non è cosa nostra” chiediamoci: “A chi stiamo delegando la cura della città, in mano a chi lasciamo l’ideale del bene comune?”.

Marco

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