“…I laici contemplativi, allora, portano il Tabor nel cuore e sono per la Chiesa i nuovi monaci nel mondo, non nella forma esterna, ma nel saper costruire e custodire una cella interna: la cella in cui si assume quell’alfabeto capace di trasfigurare e narrare la vera vita”. Don Alessandro ci conduce nella seconda domenica di Quaresima.
II di Quaresima (Anno B)
Vangelo Mc 9,2-10
Questi è il Figlio mio, l’amato
Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli.
Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.
Il Tabor nel cuore
Non esiste una vita fatta solo di discese. Prima o poi bisogna affrontare anche le salite. E non ci sono solo salite che conducono ai vari calvari della storia, ce ne sono anche di quelle che portano ai monti delle personali trasfigurazioni. Come nessuno è escluso dalla salita al Calvario, così nessuno è escluso dalla salita al Tabor. Anzi, senza Tabor non si può affrontare di petto la fatica del Calvario. Perciò, beati coloro che affrontano la fatica dei calvari della propria vita avendo già contemplato con gli occhi del cuore i frammenti della bellezza che li attende!
Nel silenzio delle tante salite della vita, c’è solo sete di fraternità ed amicizia, valori capaci di regalare riflessi di luce del proprio autentico essere nell’intimità accogliente. Solo a Pietro, Giacomo e Giovanni fu dato di salire fisicamente il monte Tabor, partecipando del dono di questa sete del Signore che li introdusse nella conoscenza della bellezza in lui nascosta.
Ma anche a noi è fatto questo dono, ogni qualvolta ci apprestiamo a salire verso il mistero dell’Eucaristia: vertice dell’incontro personale con il Signore; Tabor della nostra storia; salita che fa discendere la bellezza di Dio nel nostro tempo; soglia che ci introduce nell’estasi dei sensi dove risiede il senso di ogni esistere.
Il Tabor, allora, è il luogo dell’interiorità e della profondità, di ciò che personalmente è più impegnativo, perché tocca ciò che si è nell’intimità.
Il Tabor è esperienza della fraternità fondata sull’essere figlio, sull’essere amore che genera vita.
Il Tabor è il luogo dell’ascolto della Parola: ‘ascoltatelo!’. Senza l’ascolto della sua parola non ci sarà missione al mondo e alla vita, non ci sarà impegno né responsabilità e nemmeno ci sarà corresponsabilità nella Chiesa. È l’ascolto che qualifica le relazioni in famiglia, l’accoglienza e la disponibilità al lavoro, l’attenzione allo studio quotidiano dei giovani e dei meno giovani.
Sul Tabor il laico si fa trasfigurare da una spiritualità fatta di salite e di discese, di ascolto e di filiazione. È lì che egli cattura, con gli occhi del cuore, una luce che gli permetterà di ritornare nell’ombra, nel chiaroscuro, nella ordinarietà della vita con rinnovata forza e fiducia. È lì che imparerà a non lasciarsi spaventare dalle domande che restano senza risposte, pur essendo queste determinanti per la comprensione del mistero della propria fede. È lì che imparerà a custodire ogni dubbio perché diventi forza della ricerca e desiderio di conoscenza. È lì che imparerà che ogni discesa racchiude in sé il mistero di domande che conducono a rinnovate salite.
I laici contemplativi, allora, portano il Tabor nel cuore e sono per la Chiesa i nuovi monaci nel mondo, non nella forma esterna, ma nel saper costruire e custodire una cella interna: la cella in cui si assume quell’alfabeto capace di trasfigurare e narrare la vera vita.
don Alessandro